Suicidio in carcere a Vibo, condannato il Ministero della Giustizia
Accolto in sede civile dalla Corte d’Appello di Catanzaro il ricorso degli eredi di Salvatore Giofrè che all’atto dell’arresto nel 2008 aveva annunciato di volersi togliere la vita


Condannato dalla Corte d’Appello diCatanzaro (sezione civile) il Ministero della Giustizia che dovrà risarcire il danno alla moglie ed ai quattro figli di Salvatore Giofrè, 50 anni, di San Gregorio d’Ippona, morto suicida nel carcere di Vibo Valentia il 29 giugno del 2008. Il Ministero della Giustizia è stato condannato anche al pagamento delle spese processuali. Si tratta di una sentenza in parte storica, attesa anche la cifra consistente del risarcimento, ma soprattutto la condanna del Ministero della Giustizia. I giudici hanno quindi accolto il ricorso presentato dagli avvocato Giuseppe Di Renzo, Nicola D’Agostino e Nazzareno Rubino. [Continua in basso]

Era stata la terza sezione civile della Cassazione nel dicembre del 2018 ad annullare con rinvio la precedente decisione dei giudici d’appello di Catanzaro che non avevano ravvisato responsabilità nel Ministero della Giustizia per il caso del suicidio di Salvatore Giofrè (cl. ‘68), di San Gregorio d’Ippona, avvenuto nel carcere di Vibo Valentia la mattina del 29 giugno 2008. Salvatore Giofrè, sorvegliato speciale di pubblica sicurezza, ritenuto contiguo al clan Fiarè-Gasparro-Razionale, era stato arrestato il giorno prima con l’accusa di violenza sessuale ai danni di un’anziana di 76 anni di Maierato. In carcere non aveva retto alle infamanti accuse che gli venivano mosse al punto da togliersi la vita. Al suo legale, l’avvocato Giuseppe Di Renzo aveva detto espressamente: “Avvocato pensi lei a difendere l’onore dei miei figli perché questa volta io mi ammazzo”.E così è stato. Al momento dell’arresto, Salvatore Giofrè era stato sottoposto a regime di “grande sorveglianza” e smistato per la notte in una cella della sezione “nuovi giunti” in attesa che fosse completato l’iter diagnostico di ingresso che deve avvenire nell’arco delle 24 ore.

Sulla base di tali disposizioni Giofrè veniva controllato ogni venti minuti. Alle sette del mattino è stato però ritrovato impiccato con un lenzuolo annodato alle sbarre della finestra. In primo grado, il Tribunale di Catanzaro il 30 ottobre del 2013 aveva accolto il ricorso dei congiunti di Giofrè condannando il Ministero della Giustizia per omessa vigilanza e, quindi, al risarcimento del danno liquidato in favore di Domenica Lo Muto, di altri due eredi di Salvatore Giofrè e per ciascuno dei figli di Giofrè. La Corte d’Appello di Catanzaro, adita dal Ministero della Giustizia, aveva invece accolto l’appello ritenendo che il suicidio non fosse né prevedibile, né prevenibile, di modo che il nesso causale tra il comportamento dell’amministrazione penitenziaria e la morte di Giofrè doveva ritenersi interrotto dall’eccezionalità dell’evento. Quanto al rischio, per i giudici d’appello il detenuto era stato sottoposto al regime di “grande sorveglianza”, cioè guardato a vista ogni venti minuti. [Continua in basso]

La Cassazione, accogliendo il ricorso degli avvocati Giuseppe Di Renzo, Nicola D’Agostino e Nazzareno Rubino aveva invece fatto rilevare che il pubblico ministero, all’atto della custodia cautelare di Salvatore Giofrè, aveva espressamente statuito che fosse detenuto in “regime comune” in modo da impedire i suoi intenti suicidi o comunque resi più ardui per la presenza degli altri detenuti. Il detenuto non venne però sottoposto ad alcuna osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione, non essendo presenti, all’atto del suo ingresso in carcere, né lo psicologo né l’educatore. Da qui, in accoglimento del ricorso, la Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza di secondo grado per un nuovo esame da parte della Corte d’Appello di Catanzaro che si è ora concluso con la condanna del Ministero della Giustizia.
LEGGI ANCHE: Rinascita Scott, il pentito Arena: «Ecco i boss che comandano tutta la ‘ndrangheta vibonese»
Rinascita Scott: Bartolomeo Arena, l’impiegata del Tribunale di Vibo e Vito Pitaro